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©Bianco Tangerine
29 Febbraio 2024
29 Febbraio 2024

La scuola connessa? Un vantaggio per tutti secondo Matteo Lancini

Internet è parte integrante della realtà, sostiene lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini, e la scuola deve accettarlo e integrarlo nella didattica, non limitarsi a sottolinearne i pericoli. Lo stesso vale per i genitori, spesso più dipendenti dalla tecnologia dei loro figli.
Intervista a Matteo Lancini
psicologo, psicoterapeuta e saggista
Tempo di lettura stimato: 8 minuti
«Noi parliamo di Internet come se fosse il mondo virtuale. Ma sbagliamo. Viviamo in una società “Onlife”, in cui c’è una continua interazione tra realtà digitale (online) e materiale (life).» Per descrivere l’epoca in cui viviamo lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini parte dalla definizione coniata dal filosofo Luciano Floridi e da quella che definisce “l’analogia delle mangrovie”. Si tratta di piante che per prosperare crescono dove l’acqua di fiume incontra quella marina. Lì affondano le loro radici e da lì crescono i loro rami. Ma il loro habitat è fatto di acqua dolce o salata? Entrambe. Impossibile distinguerle, inutile pensare di separarle. Esattamente come le esperienze che gli esseri umani oggi fanno in rete riguardano direttamente e da molto vicino la loro vita reale. Lancini, che da anni studia in particolare le sfide che gli adolescenti si trovano ad affrontare, sostiene che questa distinzione tra reale e virtuale, o meglio, questa non-distinzione, è fondamentale. Perché, sottolinea, «se continuiamo a dire che esistono un uso positivo e un uso negativo di Internet è come se dicessimo che c’erano un uso positivo e uno negativo del giocare in cortile quando eravamo bambini noi. Non possiamo trattare Internet come uno strumento. È parte integrante della nostra realtà di tutti i giorni». Per questo gli abbiamo chiesto come i giovani convivono con la rete e come questa si intreccia con le loro relazioni, i loro studi e i loro desideri. In una parola, la loro evoluzione.

Professore, in questo quadro in cui Internet è diventato parte integrante della nostra realtà come si è evoluto il rapporto tra giovani e apprendimento attraverso la tecnologia?

 

È un rapporto che tocca il nervo, sempre più scoperto, di una grande contraddizione. Abbiamo costruito una società in cui i nostri figli sono obbligati a crescere in questa dimensione “Onlife”, in questo intreccio costante tra virtuale e reale, e poi quando si tratta di scuola è come se resettassimo tutto e la negassimo. Come se noi adulti guardassimo al rapporto con la tecnologia con sospetto solo quando riguarda i ragazzi. Quando sono più piccoli li mettiamo davanti al telefono o gliene compriamo uno per calmarli, distrarli o controllarli. Quando sono più grandi li mettiamo di fronte a un mondo del lavoro dove senza basi informatiche sei spacciato. E in mezzo? Spesso, come adulti, riusciamo solo a parlare dei danni che farebbero loro i videogiochi, la rete o i social. Gli stessi canali in cui siamo tutti immersi. Questa contraddizione ha contribuito alla perdita di credibilità e autorevolezza di genitori e insegnanti agli occhi di figli e alunni. Perché non sono credibili degli adulti immersi in Internet tutto il giorno, ma che quando tocca ai ragazzi si affrettano a definire lo stesso comportamento una dipendenza, che fa male, che è un freno allo sviluppo e all’apprendimento. Da una parte i ragazzi vivono dentro questa realtà perché ce li abbiamo messi noi, e dall’altra ci preoccupiamo solo dei risvolti negativi.

La tecnologia ha però davvero rivoluzionato il modo di apprendere dei ragazzi. La scuola è un punto cardine nelle giornate dei giovani, il luogo di elezione dell’educazione e tuttavia, in un mondo in costante e profondo cambiamento, sembra rimasta immutata. Dobbiamo ripensarla? E se sì, come?

La scuola deve diventare un luogo di apprendimento in senso più ampio. Più aperto, connesso, partecipativo e collaborativo. Le piattaforme tecnologiche possono favorire questo processo. Se ben utilizzate, possono risultare determinanti per aiutare a superare le disabilità, arginare la dispersione scolastica e accelerare integrazione e inclusione. Come mezzo didattico aggiuntivo e non sostitutivo. I ragazzi vanno incoraggiati e seguiti in questo percorso. Oggi invece spesso li facciamo entrare in scuole disconnesse e diciamo loro che lì i dispositivi tecnologici non devono esistere. Tra l’altro dopo anni di pandemia e didattica a distanza in cui li abbiamo obbligati a rimanere confinati davanti agli schermi dei computer e dei tablet – o almeno chi li aveva a disposizione, perché povertà educativa e povertà digitale vanno ormai di pari passo.

Se la tecnologia è il requisito principale per entrare nel mondo del lavoro e per esercitare un ruolo attivo nella società, fruendo appieno dei diritti di una cittadinanza sempre più digitale, non possiamo trattarla come “il nemico”.

La scuola rischia di perdere la sua centralità?

Oggi, in un mondo così complesso, la scuola è ancora più importante di prima, non meno. È il luogo principe delle relazioni con coetanei e con adulti diversi dalla famiglia. Dello sviluppo delle competenze che serviranno in futuro. Per questo non può prescindere dalla tecnologia. E invece ancora troppo spesso i nostri compiti in classe ed esami non contemplano nessuna verifica delle competenze informatiche, nonostante siano le prime richieste dopo la scuola. Anzi, spesso la tecnologia resta confinata fuori dalla porta delle aule. Perché non discutere anche lì di intelligenza artificiale? Perché non iniziare se non a maneggiarla almeno ad affrontare questi temi, che più che il futuro sono già il presente? Se io facessi lo stesso, se trattassi i miei studenti universitari come li trattano in molte scuole fino a pochi mesi prima, sarei cacciato io dal rettore dell’ateneo e non loro. Si troverebbero in un vicolo cieco.

Come se ne esce?

Integrando i due piani. Capisco bene che in molte lezioni Internet possa non essere utilizzato, ma la scuola italiana, il luogo dove i ragazzi passano più tempo, per assurdo è spesso l’unico luogo non collegato a Internet ad alta velocità nel Paese. Lo stesso in cui troviamo una connessione wi-fi in qualsiasi albergo, bar, ristorante, stazione o aeroporto e in cui ci lamentiamo subito se il segnale è insufficiente. Non va bene. Se la tecnologia è il requisito principale per entrare nel mondo del lavoro e per esercitare un ruolo attivo nella società, fruendo appieno dei diritti di una cittadinanza sempre più digitale, non possiamo trattarla come “il nemico”. È un divario da colmare.

E poi c’è un altro divario, quello generazionale, in cui spesso gli studenti sono più avanti degli insegnanti nell’uso dei mezzi tecnologici…

Non per forza. Sono tanti i docenti formati e aggiornati. Più che il divario tecnologico va colmato il divario comportamentale tra adulti e giovani. È questo il vero gap. E non si risolve limitandosi a obbligare i ragazzi a spegnere il telefono a tavola o tra i banchi, ma educandoli ai rischi e all’uso responsabile di queste risorse. Confrontandosi con loro. Ho intitolato il mio ultimo libro Sii te stesso a modo mio: essere adolescenti nell’era della fragilità adulta: è un mandato paradossale. Non solo limitiamo le loro possibilità di esprimere e costruire la loro identità, ma finiamo per schiacciarli e appiattirli sulle nostre aspettative, su ciò che gli insegnanti o i genitori vogliono che loro diventino. Imbrigliandoli anche nelle nostre contraddizioni.
Il caso del rapporto con la tecnologia è esemplare. Non si può dire che la rete va bene per gli adulti e demonizzarla invece per i ragazzi, perché questi ultimi imparano più dai nostri comportamenti che dalle nostre parole. E a volte ci sono più episodi di prevaricazione, di discriminazione, di cyberbullismo vero e proprio nelle chat dei genitori che in quelle dei figli. Oppure ancora siamo noi i primi che vedono con il telefono sempre in mano. Sempre pronti a riprenderli, nel momento in cui li inquadriamo, e a riprenderli di nuovo, nel momento in cui pensiamo che siano esageratamente attaccati ai loro dispositivi e li sgridiamo o puniamo. Questo ha fatto perdere credibilità agli adulti e ha fatto aumentare il potere orientativo di Internet, non diminuire. E infatti molti giovani vanno su Internet perché si sentono soli con gli adulti, cercando in rete un luogo dove potere finalmente manifestare in maniera aperta, e possibilmente lenire, i loro disagi. Dove fare esperienze fuori dal controllo degli adulti stessi. Passi fondamentali per la crescita e lo sviluppo in età in cui hanno un forte desiderio di mettersi alla prova e sperimentare. Passi che non gli lasciamo compiere altrove. Quale ragazzino oggi, dopo la scuola, torna a casa da solo per esempio, come tanti di noi hanno fatto alla loro età? Quasi nessuno. Eppure sono spazi dove si costruiscono e consolidano indipendenza, fiducia, autostima e senso di responsabilità.

Si può ricucire questo strappo?

Assumendosi le proprie responsabilità. Assumendoci le nostre responsabilità. Rinunciando, noi adulti in primis, a qualcosa. Non parlare con leggerezza di dipendenza da Internet solo se sono i giovani a passare troppe ore tra PC e smartphone. Perché dalle dipendenze si esce, peccato che se esci da Internet sei tagliato fuori dal mondo. Non è uno strumento. È parte integrante della realtà. Con le sue potenzialità e i suoi limiti. Da capire e conoscere. Perché sia un aiuto al loro sviluppo e non un ostacolo.

di Marco Cosenza

Matteo Lancini

Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, è Presidente della Fondazione Minotauro di Milano. Insegna presso il dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano. È autore di numerose pubblicazioni sull’adolescenza, la più recente è Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta (Raffaello Cortina, Milano 2023).