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©Cenci Casa-laboratorio
8 Gennaio 2024
08 Gennaio 2024

La bellezza sale in cattedra

La scuola deve diventare il luogo in cui i bambini si sentono accolti, stimolati alla conoscenza e in cui possono usare tutti i tipi di intelligenza. Secondo Franco Lorenzoni ci sono già scuole di questo tipo, in cui attraverso la bellezza s’impara a osservare e comprendere il mondo, senza paura.
Intervista a Franco Lorenzoni
maestro, saggista e fondatore della Casa-laboratorio di Cenci
Tempo di lettura: 8 minuti
«Più che con le parole, si insegna con il corpo, con il comportamento. I bambini devono sentire la relazione con il proprio insegnante, perché la cultura è relazione». Ne è convinto Franco Lorenzoni, fondatore nel 1980 della Casa-laboratorio di Cenci (in provincia di Terni), un centro di sperimentazione educativa dove ricercare nuovi linguaggi per comunicare con i bambini, dove scoprire come “educare controvento”, come recita il più recente capitolo della sua trilogia edita da Sellerio. Linguaggi che Franco Lorenzoni ha sperimentato ogni giorno con i suoi studenti nei suoi tanti anni da maestro. Ora in pensione, è ai suoi colleghi che in questi giorni tornano in classe per l’avvio dell’anno scolastico che si rivolge con qualche consiglio.

  Come si prepara un insegnante della primaria al ritorno a scuola, e soprattutto come prepara
i suoi studenti? Come rendere la scuola un posto bello dove i bambini siano felici di tornare?

Il primo giorno di scuola è molto importante. Ai bambini bisogna dare l’impressione che l’insegnante ha preparato qualcosa per loro, ha pensato a loro, apparecchiato lo spazio per loro. La cosa peggiore è pensare alla scuola come a un luogo anonimo. Invece vedere che c’è qualcuno che ha preparato qualcosa aiuta tutti a sentirsi a casa.
I bambini hanno il problema di essere riconosciuti: non tutti riescono a “entrare” subito a scuola, nel senso di entrare con tutto se stesso, avere fiducia nel fatto che la scuola sia un posto dove possono esprimersi per come sono. C’è chi entra dopo una settimana, dopo un mese, dopo parecchi mesi. Per aiutare questo processo si possono fare attività espressive, si può giocare con le parole, dipingere, esplorare un giardino, cantare insieme. L’importante è che i bambini possano portare qualcosa di sé in quel luogo. Ma questo funziona se anche l’insegnante porta qualcosa di sé. Il consiglio che mi sento di dare è di portare qualcosa che all’insegnante piaccia molto. Mostrare da subito il proprio amore per la conoscenza, per la cultura, per il sapere.

Uno dei cardini della sua pedagogia si basa sulla necessità di far sì che l’educazione non consista nell’impartire lezioni che gli studenti sappiano poi ripetere,  ma che aiuti gli studenti a conquistare da se stessi il vero. Una necessità che si fa sempre più pressante, di fronte a generazioni di studenti bombardati dalle verità precostituite dei social network e delle tecnologie? Come applicare questa sua convinzione pedagogica di fronte a bambini che spesso hanno già uno smartphone in mano sin dalla scuola primaria?

Il nodo sta nel lavorare sull’attenzione, che è una cosa preziosissima. Bisogna trovare piccole azioni che la favoriscano. I bambini molto piccoli si appassionano se li fai lavorare con materiali naturali: in giardino se possibile, o anche in classe, con foglie, sassi, sabbia, terra. Questo gioco è molto sottovalutato, perché gli schermi sono molto attraenti e i bambini vedono anche quanto sono attratti gli adulti da quegli stessi schermi. Ma lo schermo deve essere un canale fra i tanti. Noi abbiamo bisogno di tutti i sensi, di tutto il corpo e non solo delle dita, degli odori, del toccare. Un maestro mio amico diede come compito ai suoi bambini di piantare cento chiodi. È estremamente interessante usare il martello, perché è un’attività che coinvolge tanti tipi di intelligenza. Se facciamo qualcosa che suscita l’attenzione dei bambini e delle bambine, operiamo un controcanto rispetto all’eccessiva presenza tecnologica. Altrimenti questi discorsi diventano puro moralismo. Invece dobbiamo fare qualcosa di più bello, dobbiamo fare concorrenza agli smartphone, una concorrenza fondata sulla bellezza. La bellezza è la nostra alleata principale e i bambini sono molto sensibili alla bellezza. Teatro, gioco corporeo: sono tutti elementi che ci aiutano poi a imparare a leggere, scrivere e a fare matematica. Sono tutti modi per usare vari tipi di intelligenza e che ci possono aiutare a mettere insieme poi le parole e le figure.

La cronaca recente (vedi il caso di Caivano) ci mette di fronte a una realtà in cui la scuola si pone come unico presidio di legalità e di bellezza, ma che non riesce a supplire a tutte le altre mancanze. Che cosa serve? Più insegnanti specializzati? Più finanziamenti? Ma i finanziamenti sono sufficienti a colmare queste carenze?

Sono decenni che in Italia si parla male della cultura e non si investe sulla cultura. E gli insegnanti non possono invertire questa tendenza da soli. Se le famiglie non credono nella scuola e nella cultura come luogo di miglioramento della propria vita, è difficile chiedere agli alunni e alle alunne di impegnarsi. Anni fa lavoravo in una zona dov’era presente una numerosa comunità romena. Quei bambini avevano una motivazione allo studio più forte di quelli italiani, perché per le loro famiglie la scuola e la conoscenza erano un luogo di emancipazione sociale. Bisogna agire sulle famiglie, e va proposto ai ragazzi qualcosa che parli davvero a loro. E poi ci vuole la curiosità da parte di noi adulti per il loro mondo, qualsiasi esso sia, fatto anche di storie che non ci piacciono, di musica che non è la nostra.

Se facciamo qualcosa che suscita l’attenzione dei bambini e delle bambine, operiamo un controcanto rispetto all’eccessiva presenza tecnologica. Se le famiglie non credono nella scuola e nella cultura come luogo di miglioramento della propria vita, è difficile chiedere a bambini e ragazzi di impegnarsi.

I più recenti test INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione) testimoniano che uno studente su due esce dalle superiori senza avere le competenze adeguate in matematica e quelle di base per comprendere quello che legge. E le prime crepe si notano già alla primaria, quella che finora per noi aveva sempre rappresentato un’eccellenza. La preoccupano questi dati?

Ci vogliono più anni per capire le tendenze. Continuo a credere che la scuola primaria funzioni abbastanza bene, nonostante l’evidenza che se vivi in un territorio deprivato e in un contesto familiare in difficoltà la scuola non è più in grado di attenuare le disuguaglianze. I bambini che provengono da questi ambienti hanno meno stimoli. Allora il tema va affrontato in modo concreto, agendo sul tempo scuola e sul tempo pieno. A Palermo le scuole sono aperte cinque giorni a settimana per sei ore, senza alcun rientro. Rispetto alle quaranta ore che si fanno a Milano o a Bologna parliamo di un anno in meno di scuola. Questa è un’ingiustizia inaccettabile. Perché abbiamo più tempo scuola nei posti ricchi e meno nei poveri? Poi bisogna agire sui nidi. Tutte le statistiche internazionali ci dicono che la vera possibilità di incidere sulla povertà educativa passa attraverso un percorso di nido 0-3 anni. Nel sud i nidi non ci sono. Partiamo da questi dati e da questi elementi concreti. Se in un quartiere difficile rendi disponibili nidi belli, raggiungi due obiettivi: offri ai bambini un’esperienza bella e alle mamme la possibilità di lavorare. Va aggiunto poi che sui risultati del test INVALSI va tenuto conto della pandemia. I nostri bambini hanno vissuto due anni molto critici e questo incide sul rendimento.

La pandemia, appunto. Bambini e ragazzi vengono dall’esperienza durissima del Covid, che ha sconvolto ogni certezza. Poi cresce l’incertezza del futuro a causa dei cambiamenti climatici, e tutti i giorni vediamo in TV scorrere le immagini delle guerre in corso. Quelli di oggi sono bambini più ansiosi di un tempo? E come aiutarli ad affrontare queste sfide così importanti senza perdere fiducia nel futuro? Anzi, rendendosi protagonisti del cambiamento?

Bisogna parlarne, discuterne, ragionarci sopra insieme, imparare a fare statistiche, capire che cosa succede. Faccio un esempio: per un anno ho lavorato con i miei bambini sull’immigrazione, ma facendo matematica e statistica, quindi costruendo cartine, plastici sul Mediterraneo. Quello che impariamo a scuola ci serve per capire di più il mondo. Dobbiamo comprendere che il mondo dei bambini non sta in un luogo separato ma in mezzo a quello che accade. In merito alla pandemia, è vero che l’abbiamo superata, però se a livello collettivo abbiamo rimosso quanto successo, singolarmente i bambini ne hanno memoria. Per due anni è stato tolto a bambini e giovani il corpo, che è lo strumento conoscitivo più forte, e ciò li ha portati a vivere un senso di solitudine aggravata, perché sebbene non si parli più del Covid quel trauma c’è. Ed è un delitto non accorgersene.

Per approfondire: Casa-laboratorio di Cenci

di Maria Piera Ceci

©Cenci Casa-laboratorio

Franco Lorenzoni

Franco Lorenzoni è un maestro elementare oggi in pensione. Ha fondato il centro di sperimentazione educativa e artistica Casa-laboratorio di Cenci (ad Amelia, in Umbria) ispirato ai principi del Movimento di Cooperazione educativa, che tuttora coordina insieme all’insegnante e attivista Roberta Passoni. Ha diretto il documentario Elementare e collaborato ai documentari L’acqua tra cielo e terra (regia di Antonello Branca, 1985) e È meglio che pensi la tua, dedicato al suo ultimo anno di insegnamento (regia di Davide Vavalà, 2019) È autore di diversi libri, il più recente è Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli (2023).