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©Adkasai / iStock photo
3 Aprile 2024
3 Aprile 2024

Educazione ambientale: un nuovo percorso sostenibile

L’economista Anna Cristina D’Addio spiega come oggi il cambiamento climatico non possa rimanere fuori da nessuna cornice normativa e che l’educazione ambientale deve trovare un ruolo di primo piano dentro e fuori dalle scuole
Intervista ad Anna Cristina D’Addio
economista all’UNESCO
Tempo di lettura stimato: 8 minuti
Il cambiamento climatico ci chiede di cambiare. Sembra un gioco di parole, ma è la verità: gli effetti di questo fenomeno ci dicono che gran parte del nostro stile di vita va modificato. E sebbene sia comprensibile che alcuni di noi siano portati a dire che «le cose si sono sempre fatte così» per restare nella zona comfort, in questo ambito non possiamo più permettercelo. Per chi oggi è ancora molto giovane imparare a camminare su un nuovo percorso, più sostenibile, è una sfida alla portata di mano. Una sfida in cui un ruolo centrale è giocato dall’educazione, soprattutto nel periodo di istruzione obbligatoria: per essere vinta servono però quadri legislativi consapevoli, strumenti efficaci e docenti preparati. Di questo e molto altro abbiamo parlato con Anna Cristina D’Addio, economista all’UNESCO, dov’è capo sezione tematica del GEM (Global Education Monitoring) Report e responsabile di un progetto di monitoraggio delle politiche educative sul cambiamento climatico nel mondo.

D’Addio, perché è così difficile per le persone comprendere gli effetti del cambiamento climatico?

La comprensione e l’azione per contrastare il cambiamento climatico sono rese complesse dalla compresenza di molti fattori: scientifici, politici, economici e sociali. Sul piano politico, ad esempio, è fondamentale ricordare che le emissioni di CO2 contribuiscono al riscaldamento globale a prescindere dal luogo in cui sono prodotte, richiedendo quindi sforzi internazionali.

Una dimensione geografica globale a cui se ne aggiunge una temporale?

Sì, perché mentre alcuni effetti del cambiamento climatico sono già in atto, altri sono attesi. C’è uno scollamento temporale tra le azioni che dobbiamo concretizzare oggi e le conseguenze future che complica la questione, inducendo alcuni decisori politici a procrastinare le iniziative.

E dal punto di vista economico?

Intervengono ad esempio le disparità economiche e di sviluppo: ci sono paesi a basso reddito che sono molto più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico. Ma in questi stessi paesi ci sono anche problemi di priorità e risorse: si trovano a scegliere fra esigenze immediate come il potenziamento dell’istruzione e a lungo termine come il contrasto del cambiamento climatico. Non dovrebbero esistere dilemmi di questo tipo.

Quali effetti produce il cambiamento climatico sulle politiche educative e sull’accesso all’istruzione?

Ne produce di diretti e indiretti, invertendo potenzialmente decenni di progressi educativi. In maniera indiretta rende gli ambienti di apprendimento meno sicuri e accessibili, mentre in maniera diretta influenza le possibilità di apprendimento. Fenomeni come le inondazioni e i cicloni, per esempio nelle regioni del Pacifico, danneggiano le scuole, che sono usate anche come rifugi di emergenza, con una conseguente interruzione dell’educazione.

Studi recenti dimostrano che essere esposti precocemente a uno shock climatico ha effetti negativi duraturi sullo sviluppo fisico e cognitivo.

Ci sono anche conseguenze a livello evolutivo per i più giovani?

Purtroppo sì. Studi recenti dimostrano che essere esposti precocemente a uno shock climatico ha effetti negativi duraturi sullo sviluppo fisico e cognitivo, che comprendono ansie e paure. Uno degli aspetti più interessanti degli studi recenti e dell’attivismo è la richiesta di una maggiore attenzione agli aspetti socio-emozionali del cambiamento climatico.

In un fenomeno complesso come questo, quanto spazio c’è per fake news e teorie dalla dubbia validità scientifica?

I giovani assorbono come spugne ciò che ascoltano e guardano sui social network, i cui algoritmi riescono a catturare l’attenzione portando le opinioni in direzioni a volte opposte a quelle originarie. I giovani adulti riescono con più facilità a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è, ma quelli più piccoli no. Dobbiamo indirizzare i giovani verso fonti serie.

A un evento partner della COP28 di Dubai ha presentato alcuni risultati del progetto di monitoraggio delle politiche educative sul cambiamento climatico che coordina; ci può dare qualche dettaglio sull’iniziativa?

È un progetto durato tre anni, analizzando politiche e leggi di 80 paesi che coprono il 75% della popolazione mondiale, rappresentativi di tutte le regioni del mondo e diversi di fronte al cambiamento climatico. È un lavoro che con approccio comparativo guarda alla dimensione politico-legislativa, cioè a quello a cui i paesi ambiscono, i loro obiettivi, tenendo presente che la realtà attuale può essere anche molto diversa.

© COP28 / Anthony Fleyhan

A oggi quali dati e risultati ritiene più significativi?

Ci sono notevoli progressi in moto perché si è capito che il cambiamento climatico non può rimanere fuori da nessuna cornice normativa. Abbiamo scoperto, ad esempio, che l’87% dei paesi ha politiche o strategie che includono il cambiamento climatico nell’istruzione primaria e secondaria, però solo il 38% ha una legge interamente dedicata a questo tema. I paesi hanno anche attivato programmi rivolti a gruppi specifici: minoranze etniche come gli aborigeni in Australia, le donne in quanto toccate dal cambiamento climatico più e diversamente dagli uomini, o i NEET, cioè i giovani che non lavorano e non studiano.

Ecco, ma oggi l’educazione sul cambiamento climatico è prerogativa esclusiva della scuola?

L’educazione sul cambiamento climatico troppo spesso prende forma in ambienti formali come la scuola. Chi non vi rientra spesso è automaticamente tagliato fuori.

Il cambiamento climatico rende gli ambienti di apprendimento meno sicuri e accessibili influenzando i percorsi educativi.

Dalle vostre indagini su questo tema che cosa risulta più efficace a scuola: una lezione o la trasmissione di stili di vita utili a contrastare il cambiamento climatico?

L’educazione al cambiamento climatico non deve essere inclusa in una sola materia, ma trasversale ai programmi scolastici. Chi riceve questo tipo di insegnamento trans-curriculare ha una comprensione più profonda del fenomeno e delle strategie per contrastarlo. Ci sono poi paesi che investono in attività extracurriculari, ad esempio il giardinaggio o campagne di riciclaggio.

In Italia come siamo messi su questi temi?

L’Italia è stata pioniera integrando l’educazione al cambiamento climatico nel suo curriculum nazionale. È il primo Paese ad aver reso obbligatori gli studi sul cambiamento climatico per le scuole, dedicandogli quasi un’ora alla settimana dal 2020. L’iniziativa dell’allora Ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti rientra in uno sforzo più ampio per porre l’ambiente e la società al centro di tutto ciò che gli studenti imparano a scuola. Questa mossa coraggiosa ha rappresentato un precedente per l’educazione al cambiamento climatico a livello globale.

Fra le richieste che arrivano dall’attivismo giovanile quali interessano il mondo scolastico?

Alcuni giovani hanno condotto campagne per far emergere che i libri di testo sono inadeguati per trasmettere consapevolezza riguardo al cambiamento climatico. In questi libri raramente è promosso, ad esempio, uno stile di vita senza auto, mentre il riciclo dei rifiuti è più presente. Su questi temi il più delle volte non c’è stato un aggiornamento dei testi scolastici negli ultimi vent’anni.

© FatCamera / iStock photo

Come si può comunicare il cambiamento climatico senza sfociare nel terrorismo psicologico?

Il problema dell’ansia legata al cambiamento climatico e della salute mentale è importantissimo. In generale la comunicazione deve promuovere un’azione partecipativa, non stress, ansia e immobilismo. Alcuni cambiamenti sortirebbero effetti incredibili: modificare il nostro stile di vita nell’alimentazione, nei trasporti, nell’energia, nei materiali e nell’agricoltura farebbe diminuire le nostre emissioni del 37% entro il 2050. Anche per dati come questo l’educazione al cambiamento climatico è fondamentale: non solo a scuola ma anche attraverso campagne di comunicazione rivolte a tutti.

Quali potenzialità e/o preoccupazioni ci sono per il futuro?

Mi viene subito in mente che un terzo dei paesi non pone l’accento sul cambiamento climatico nel programma di formazione degli insegnanti. I dati confermano che spesso i docenti non si sentono preparati a insegnare questo tema così complesso. In generale è fondamentale continuare a educare in modo interdisciplinare, affiancando all’apprendimento teorico quello pratico, fornendo alle persone conoscenze, valori e comportamenti necessari per diventare a loro volta agenti del cambiamento.

di Michele Razzetti

Anna Cristina D’Addio

Anna Cristina D’Addio, economista di formazione, dal 2017 è Senior Policy Analyst nel team GEM Report dell’UNESCO. In passato ha lavorato presso l’OCSE occupandosi di educazione e alfabetizzazione finanziaria, fasce deboli, disuguaglianza, povertà, trasmissione intergenerazionale dell’istruzione, invecchiamento, politica sociale declinata in contesti di calo della fertilità. È coautrice di diverse pubblicazioni dell’OCSE. Ha inoltre insegnato e svolto attività di ricerca presso il CAM (Center for Applied Economics) dell’Università di Copenhagen, all’HIVA (High Institute for Labour Studies) dell’Università Cattolica di Leuven, al Center for Research in Integration, Education, Qualifications and Marginalization dell’Aarhus Business School, al CORE (Center of Operations Research and Econometrics) e IRES (Institut de Recherche Économique et Sociale) dell’Univesità Cattolica di Louvain-La-Neuve.