Oggi a che cosa pensano i ragazzi, quando si parla di clima?
Si è fatta un’idea del perché?
Dobbiamo tenere conto dei modi in cui si parla di clima e ambiente sui media, che spesso non sono i più appropriati: il giornalismo ha bisogno di titoli roboanti, la televisione premia il sensazionalismo e l’approccio catastrofista alla crisi climatica, i social network promuovono la conflittualità prima del dialogo. Questo tipo di narrazione non ha portato a un cambiamento. Non lo sta facendo. È chiaro che non ha funzionato e non funzionerà. Io credo si debba ripensare da zero la comunicazione sui temi ambientali. C’è bisogno di una comunicazione narrativa ed emotiva.
Io sento il bisogno di una nuova comunicazione, emotiva e narrativa. Una comunicazione che avvicini le persone e riesca a ristabilire una relazione fra uomo e ambiente.
Greta Thunberg, e il movimento dei Fridays For Future nato dalla sua opera di attivista per i diritti climatici, ha risvegliato cuori e coscienze di milioni di ragazzi in tutto il mondo…
È vero. Greta ha cominciato a usare le emozioni per sensibilizzare le persone sui temi ambientali. Infatti da quando c’è lei è cambiata totalmente la percezione del problema. Adesso tutti sanno. Non possiamo più dire che ci sia qualcuno che non è a conoscenza della questione climatica. Prima non era così. Me ne sono resa conto io stessa a lezione, facendo domande molto basilari ai miei studenti. Ho visto una trasformazione netta fra il “prima” e il “dopo” Greta Thunberg: la percezione della crisi climatica è davvero cambiata.
Non posso negare, però, che le emozioni cui il movimento dei Fridays For Future attinge sono le emozioni della paura, della catastrofe. Emozioni che non hanno innescato una reazione positiva nella cittadinanza. Al contrario, le persone spesso si sono spaventate e allontanate.
Di che cosa c’è bisogno, allora?
Io sento il bisogno di una nuova comunicazione, che avvicini le persone e riesca a ristabilire una relazione fra uomo e ambiente. Che riesca a ricucire un rapporto, almeno in parte, perduto. Vale anche, e soprattutto, per i bambini e i ragazzi: perché solo se riusciamo a conoscere e riconoscere di far parte di un pianeta dove tutto è profondamente interconnesso, allora riusciamo a immaginare che le nostre azioni e le nostre scelte possano avere conseguenze positive per l’ambiente.
Di più: una volta riannodata la relazione non avremo più bisogno di divieti, regole e paletti. Perché risulta spontaneo e imprescindibile prendersi cura di qualcosa a cui siamo legati a filo doppio!
©starmaro (IStock)
Lei parla di ripensare da zero l’educazione ambientale. Che ruolo ricopre la scuola in questo cambio di paradigma?
La scuola italiana, oggi, per molti aspetti è ancora “figlia” della riforma Gentile del 1923. Una scuola pensata per una società del tutto diversa da quella di oggi. Allora si trattava di educare una popolazione principalmente contadina e a cui mancavano molti strumenti culturali, ma che aveva con la natura una relazione salda.
Oggi ai nostri bambini manca completamente quel bagaglio di esperienze. Io stessa non le ho più. I miei genitori sì: sanno come si fa un innesto su una pianta, sono in grado di valutare lo stato di salute di un albero, di una foglia, sanno di che cosa ha bisogno la terra per portare frutto. Possiedono competenze che abbiamo perso quasi del tutto e che a scuola in genere oggi non vengono insegnate.
Pensa a un approccio esperienziale e interattivo con la natura? Anche in Italia cominciano a diffondersi spazi che integrano attività in aula e all’aperto…
Qualche passo in avanti si sta facendo, è una strada che va perseguita. Provo a spiegarmi con un esempio: oggi fra gli iscritti al corso di laurea in Scienze della Terra non è infrequente imbattersi in studenti che non hanno dimestichezza con il ciclo lunare e non sanno ogni quanto ci sia la luna piena, anche se la nozione è presente nei libri di testo scolastici e con tutta probabilità è stata loro insegnata. Forse di fenomeni naturali come questo bisogna fare esperienza diretta, partecipando con i sensi, all’aria aperta. Bisogna aprire le aule. Al contrario, cent’anni fa i ragazzi trascorrevano l’intera giornata all’aria aperta e bisognava chiuderli in una stanza per non farli distrarre, tanto era potente la relazione con l’ambiente che vivevano abitualmente.
Solo se riusciamo a conoscere e riconoscere di far parte di un pianeta dove tutto è profondamente interconnesso, riusciamo a immaginare che le nostre azioni e le nostre scelte possano avere conseguenze positive per l’ambiente.
Quali sono i segnali più evidenti di questa cesura fra uomo e ambiente?
Non c’è solo il clima. Abbiamo inquinamento da microplastiche, polveri sottili, falde contaminate, si registra perdita di biodiversità e ci sono tante questioni legate al nostro stile di vita. Penso, per esempio, al fast fashion, la cultura dell’usa e getta. Sono tutte manifestazioni di una relazione problematica con l’ambiente.
Un altro esempio: una delle prime cose che si imparano alla scuola primaria studiando geografia è come riconoscere un paesaggio antropico da uno naturale (i miei figli ci sono passati da poco). Anche questo è espressione di un rapporto problematico. Dividere ciò che è di origine antropica da ciò che è naturale significa collocare l’uomo al di fuori della sfera della natura. Così l’ambiente diventa qualcosa che possiamo sfruttare in modo indiscriminato perché ci è estraneo. Lo stesso concetto di natura incontaminata è falso. Semplicemente, non esiste. Perché su questo pianeta non c’è un metro quadro che non risenta del clima e dell’aria ormai profondamente alterati dalle attività umane. Persino parchi naturalistici e aree protette richiedono una costante presenza umana, dalla gestione dei fuochi al monitoraggio delle specie animali e vegetali.
Lei sostiene quindi che non esiste la contrapposizione tra “naturale” e “artificiale”.
Io credo che l’uomo debba riconoscere di fare parte della natura. E rendersi conto di tutto quanto lo lega a quel mondo. Solo sentendoci davvero parte di qualcosa possiamo riconoscere e rispettare l’ambiente. È una questione di emozioni. Mi costa molto ammetterlo come scienziata: oggi siamo in grado di raccogliere una quantità enorme di dati, siamo in grado di monitorare lo stato di salute di una pianta e intervenire con precisione fornendo tutte le sostanze di cui abbisogna. È una conoscenza che ci deriva dall’uso di sensori. I sensori, a differenza dei sensi, però, non generano sentimenti. Abbiamo una conoscenza straordinaria, ma che non muove le nostre emozioni. Non unisce, separa.
Ci può fare un esempio di come la scuola può sviluppare questo rapporto più intenso con la natura?
Riporto l’esempio della scuola dei miei figli. Lo scorso anno gli insegnanti della primaria hanno scelto di portare le classi in montagna: tre giorni in rifugio. Molti studenti non avevano mai camminato su un sentiero e i docenti hanno dovuto insegnare loro come si fa. Può sembrare un esercizio banale, non lo è affatto.
I miei figli, che frequentano la secondaria, sono invece andati alle Cinque Terre. L’escursione prevedeva che la classe fosse accompagnata da un botanico, un biologo, un ecologo, un oceanografo: quante cose da vedere e imparare!
Claudia Pasquero
Claudia Pasquero è docente di Oceanografia, Meteorologia e Climatologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha insegnato al Caltech (California Institute of Technology) di Pasadena, alla UCLA e alla UC di Irvine. Collabora con l’ESA (l’Agenzia Spaziale Europea) allo sviluppo di missioni satellitari relative allo studio del clima.