La scuola come istituzione e gli insegnanti come professionisti che operano al suo interno sono in difficoltà. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo cosiddetto avanzato. Alle difficoltà di tutti in Italia se ne aggiungono altre che hanno a che fare con la storia del Paese: la sua tardiva unificazione, la altrettanto tardiva alfabetizzazione, la scarsa abitudine alla lettura della maggioranza della popolazione, la distanza culturale tra le diverse aree del Paese, l’insufficiente attenzione alla politica educativa in generale, e in particolare alla formazione degli insegnanti, dei tanti governi che si sono succeduti.
Nelle riflessioni che seguono non farò però riferimento, se non incidentalmente, alla situazione della scuola italiana, ma alle difficoltà che derivano dal pensare all’educazione (nel senso di education) in un’epoca caratterizzata da un vorticoso processo di accelerazione, un concetto che è stato proposto solo piuttosto recentemente nelle scienze storico-sociali da Hartmut Rosa, uno studioso tedesco a noi contemporaneo (H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino 2015).
Sarebbe utile che, accanto o integrato all’insegnamento della storia, nelle scuole si trasmettesse l’idea che l’uomo viene da lontano e che la sua storia non parte da quando gli storici hanno incominciato a narrarla (grosso modo dai tempi di Erodoto, cioè circa cinque secoli prima di Cristo). La nostra specie (Homo sapiens) risale a 100-200.000 anni fa ed era stata preceduta da altre specie la cui origine risale a 2-3 milioni di anni fa. Il primo capitolo della gran parte dei manuali per l’insegnamento della storia è dedicato alla “preistoria”, cioè a un processo di evoluzione che è durato appunto milioni di anni. Del processo di evoluzione si parla nell’insegnamento di scienze (nei tempi in cui studiavo io, meno di un secolo fa, Darwin spesso non era neppure nominato). Ma non c’è solo la pre-storia delle specie animali e umane, c’è la pre-storia delle forme di vita sul pianeta e prima ancora la pre-storia del pianeta e della galassia alla quale il pianeta appartiene.
Ovviamente esagero. Non propongo di reclutare gli astrofisici per insegnare nelle scuole. Propongo però, al di là della storia, sulla quale tornerò in seguito, di insegnare a pensare per “tempi lunghi”, tenendo conto dei tempi astrofisici, geologici, biologici, antropologici e storici.
È solo riflettendo sui “tempi lunghi” che si possono acquisire le categorie mentali, primo per pensare agli esseri umani come “specie” che ha avuto un’origine, un’evoluzione e potrebbe prima o poi estinguersi; e secondo che in questo lungo e lento percorso ci sono state fasi di straordinaria accelerazione dei cambiamenti. Queste fasi, a loro volta, nelle epoche remote, hanno potuto impiegare decine di migliaia di anni per realizzarsi, in seguito secoli, ma ora i cambiamenti avvengono nell’arco di decenni. Per decine di migliaia di anni gli uomini e le donne di questa terra hanno praticato per sopravvivere la caccia e la raccolta, poi hanno scoperto il fuoco, poi hanno incominciato a coltivare i campi e ad addomesticare alcune specie animali (la rivoluzione agricola), poi ancora, da non più di tre secoli, hanno usato carbone, petrolio e successivamente anche gas per alimentare le fabbriche e produrre una quantità inverosimile di beni (la rivoluzione industriale), e da pochi decenni hanno inventato macchine che trattano e immagazzinano quantità praticamente infinite di informazioni (la rivoluzione digitale). La successione di queste fasi è stata caratterizzata da ritmi di cambiamento sempre più accelerati, che hanno investito tantissimi aspetti della vita quotidiana degli esseri umani, dai modi di abitare, di alimentarsi, di vestirsi, di spostarsi, di divertirsi, di lavorare fino a, soprattutto, di comunicare.
Nel giro di poche generazioni le società umane sono cambiate, ma il vero problema è che cambiano anche nell’arco di una stessa generazione.
All’insieme di questi aspetti pervasivi dell’accelerazione si aggiunge poi un cambiamento demografico di portata straordinaria che ha investito, con tempi e modalità diverse, quasi tutte le regioni delle Americhe e del continente euro-asiatico. Attualmente, solo l’Africa sembra non essere ancora entrata in questa fase. In paesi come l’Italia, l’aspettativa di vita alla nascita è raddoppiata nell’arco di poco più dell’ultimo secolo (passando da quaranta a più di ottant’anni). Questo è sicuramente il risultato dei progressi della medicina e dell’assistenza sanitaria, che hanno da un lato ridotto drasticamente la mortalità infantile e dall’altro lato spostato in avanti le fasi terminali della vita.
Oltre ad aver reso possibile l’emancipazione femminile, liberando le donne dalla necessità di dedicare quasi la loro intera esistenza al compito di garantire la riproduzione biologica della società, queste trasformazioni hanno cambiato il profilo della distribuzione della popolazione per classi di età, riducendo la quota di giovani e gonfiando quella di persone anziane. Nel giro di poche generazioni le società umane sono cambiate, ma il vero problema è che cambiano anche nell’arco di una stessa generazione. Si nasce in una società ma si diventa adolescenti, giovani, adulti e vecchi in società che non sono più le stesse di quella in cui si è nati. La situazione prodotta dall’accelerazione è un fatto assolutamente nuovo nella storia della specie umana. In passato le trasformazioni strutturali che avvenivano nell’arco di una vita umana erano quasi impercettibili. Potevano certo accadere eventi (guerre, epidemie, carestie, colpi di stato e altro) con grande impatto sull’esistenza delle persone, queste però nascevano e morivano in una società che nel frattempo era rimasta fondamentalmente la stessa. Il tessuto sociale veniva ricostruito dopo le lacerazioni e riprendeva laddove era stato interrotto. I tratti permanenti dei modi di vita si sono ridotti, mentre sono aumentati fortemente i tratti di novità e di imprevedibilità. Questa condizione trasforma la nostra appropriazione cognitiva della realtà; si riduce quello che possiamo dare per scontato (taken for granted, direbbe Alfred Schütz), mentre si espande l’inatteso, l’imprevedibile, il nuovo.
Per fare solo un esempio banale, basta pensare a come sono cambiati gli strumenti della comunicazione scritta in meno di un secolo da quando andavo alle scuole elementari. Allora ho imparato a scrivere con penna, pennino, calamaio e inchiostro, poi sono arrivate le penne a sfera, le famose Bic, poi l’Olivetti Lettera 22, poi i primi computer con floppy disk, poi i pc portatili con hard disk, poi i telefoni cellulari sui quali posso scrivere, leggere e aggiungere anche immagini, potrei anche dettare questo articolo a un dispositivo che riconosce la mia voce e trasforma direttamente il parlato in scritto, magari anche in una lingua diversa. Cambiamenti di questa natura avvengono costantemente in ogni aspetto della vita quotidiana.
Gli esseri umani hanno dimostrato di essere in grado di adattarsi e abituarsi a questi cambiamenti, non tutti però nella stessa misura e, soprattutto, con intensità e modalità diverse a seconda della fase del corso di vita in cui questi cambiamenti avvengono. La plasmabilità del pensiero e dell’azione è molto elevata, ma anche molto differenziata da generazione a generazione e da individuo a individuo. Per un millennial è naturale gestire gran parte delle relazioni sociali attraverso i social; per chi, come me, è nato nella prima metà del secolo scorso non potrà che essere una curiosa nuova esperienza, ma nella maggior parte dei casi farà parte di un ambito di relazioni dal quale molti anziani restano fondamentalmente esclusi. Detto altrimenti, con un paradosso, l’accelerazione fa sì che viviamo tutti lo stesso tempo ma non siamo più dei contemporanei. Il mondo nel quale viviamo e nel quale crescono le generazioni successive non è più il mondo nel quale siamo cresciuti. L’accelerazione espande la distanza tra le generazioni. Non tanto e non necessariamente sul piano delle emozioni. Tra genitori e figli/e, come tra nonni/e e nipoti non viene meno la possibilità di relazioni forti sul piano affettivo. La distanza cresce invece sul piano cognitivo, sul modo di leggere la realtà e di reagire alle sue turbolenze.
Per affrontare e progettare il futuro l’educazione dovrebbe addestrare a guardare lontano, dietro le spalle e davanti a sé, avendo come principio guida la costruzione della fiducia nelle proprie capacità e quindi l’autostima.
In questi mesi, per esempio, si discute molto di intelligenza artificiale. Si leggono o ascoltano i pareri degli esperti, spesso discordi e il cui linguaggio non è facilmente comprensibile dalla maggioranza anche piuttosto colta. Ci facciamo l’idea che probabilmente siamo di fronte a una nuova grande rivoluzione che cambierà, nel bene ma forse anche nel male, la vita delle nostre società. Si delineano, come al solito in questi casi, da un lato il fronte degli ottimisti che credono nella scienza e nel progresso, e dall’altro lato il fronte dei pessimisti per i quali l’accelerazione ci porta sull’orlo dell’abisso. Di fronte all’ignoto e all’imprevedibile la polarizzazione investe certamente anche il corpo insegnante, soprattutto il corpo insegnante più anziano e coloro che aspirano alla pensione, possibilmente anticipata. Azzardo una previsione: ci saranno ottimisti (una minoranza), pessimisti (una minoranza più consistente), ma, soprattutto, incerti che, non sapendo che direzione prendere, ripiegheranno su quello che hanno acquisito e su cui si sentono abbastanza sicuri, sul loro sapere “tecnico”. La trasmissione di un sapere specialistico e canonizzato diventa prevalente, l’istruzione prende il sopravvento sull’educazione mentre i due momenti non dovrebbero mai essere dissociati.
Di fronte alla sfida dell’accelerazione il compito degli insegnanti è quindi particolarmente difficile. Il mandato dovrebbe essere addestrare i giovani e le giovani ad affrontare il futuro, ma nessuno è in grado di sapere quale sarà il futuro nel quale sono destinati a vivere. Sappiamo con certezza che sarà diverso da quello che hanno affrontato i loro insegnanti quando avevano la loro età. In passato si poteva ragionevolmente fare affidamento sulla saggezza degli anziani perché avevano vissuto di più e avevano accumulato tanta esperienza. Oggi, non certo in tutti ma in molti ambiti, il segno del rapporto si è invertito. Molte conoscenze/competenze accumulate da adulti e anziani sono diventate obsolete. Sono questi ultimi che devono essere “aggiornati”, la direzione del rapporto educativo risulta ribaltata. Ciò ovviamente non riguarda tutti i campi del sapere e non tutti con la medesima intensità, ma molti insegnanti si sentono comunque spiazzati, rivelano di non capire più i ragazzi e le ragazze che hanno di fronte, denunciano il loro (più dei ragazzi che delle ragazze) scarso interesse per le materie, la loro scarsa attenzione, perseveranza e impegno nel perseguire un obiettivo. È come se vivessero in un mondo inaccessibile a coloro che non hanno la loro stessa età.
Non bisogna generalizzare, però è innegabile che tra le tante ragioni per cui non pochi insegnanti mostrano disagio ci sono anche un vago sentimento di inadeguatezza ad affrontare alcuni tratti della cultura giovanile delle generazioni attuali. È il disagio di chi è convinto di dover dare ai giovani delle certezze per poter affrontare il futuro, nella consapevolezza che il futuro sarà comunque incerto in quanto in larga misura imprevedibile. Come insegnanti non siamo stati formati per addestrare i nostri studenti ad affrontare l’incertezza.
La capacità di affrontare l’incertezza appartiene alla categoria delle competenze trasversali (nel gergo internazionale chiamate soft skills), e cioè la fiducia nelle proprie capacità di far fronte in modo adeguato a situazioni impreviste e imprevedibili, cioè di saperle interpretare (funzione cognitiva), di saperle valutare (funzione etica), e di gestire i sentimenti che suscitano (funzione emotiva). In breve, queste capacità si possono riassumere in una sola: disporre di una dose solida, non esagerata, di “autostima”.
I buoni insegnanti sanno quanto sia importante l’autostima per utilizzare al meglio le proprie potenzialità. Fa molta differenza, rispetto a qualsiasi compito di apprendimento, poter dire a sé stessi “posso farcela”, oppure “non ce la faccio”. Troppo spesso vi sono insegnanti inconsapevoli dell’importanza del loro giudizio di incoraggiamento o di scoraggiamento nel rafforzare o indebolire il sentimento di autostima dei loro alunni/studenti/allievi. Non c’è dubbio che a seconda dei compiti (preferisco questo concetto a quello di “materia” o “disciplina”) vi sono ragazzi e ragazze più o meno “dotati”. Le doti non sono solo naturali, possono dipendere anche da tanti fattori: la famiglia in cui si è nati, le esperienze educative pregresse, le compagnie che si frequentano. L’insegnante di valore sa scoprire per tempo le “doti” sulle quali far leva per rafforzare l’autostima. Troppi insegnanti, invece, dividono la classe tra dotati e non-dotati e finiscono per dedicare la loro attenzione ai primi e a trascurare i secondi. Questi insegnanti non sono consapevoli del potere che hanno di rafforzare o indebolire l’autostima.
Riassumendo, l’idea di accelerazione ci serve per capire in quale epoca viviamo e, per farlo, abbiamo bisogno di uno sguardo di lungo periodo che aiuti a pensare il pianeta, la vita sul pianeta e l’evoluzione, prima lenta e poi accelerata, che ci ha portato fino a noi. Nelle società dell’accelerazione rischiamo di appiattire il passato e la memoria e guardare sgomenti all’incertezza del futuro. Per affrontare e progettare il futuro l’educazione dovrebbe addestrare a guardare lontano, dietro le spalle e davanti a sé, avendo come principio guida la costruzione della fiducia nelle proprie capacità e quindi l’autostima.
Alessandro Cavalli
Alessandro Cavalli, studioso specializzato in sociologia della gioventù, dell’educazione, del tempo e della memoria, è professore emerito dell’Università di Pavia, socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei e presidente dell’Associazione “Per Scuola Democratica”. Ha diretto la rivista “il Mulino” e ha svolto e coordinato per l’Istituto IARD diverse indagini sugli insegnanti italiani, tra cui Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola (coautore Gianluca Argentin, il Mulino, Bologna 2010). È autore di diversi saggi e di traduzioni ed edizioni critiche delle opere dei massimi esponenti del pensiero sociale tedesco tra XIX e XX secolo.