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6 Maggio 2024
3 Maggio 2024

Zero-sei anni. Gli spazi dell’apprendimento secondo il pediatra Giorgio Tamburlini

La crescita di un bambino è un processo tanto delicato quanto importante e richiede che la società sia in grado di supportare i genitori nel loro ruolo. Provvedendo a creare il giusto ambiente per l’apprendimento.
Conversazione con Giorgio Tamburlini.
Tempo di lettura stimato: 12 minuti
Fu John Locke a considerare il cervello infantile una tabula rasa, un foglio bianco su cui l’esperienza e l’ambiente scriveranno. Secondo lui, alla nascita, la mente umana è priva di contenuti e caratteristiche innate, in contrasto con l’idea di una natura umana predefinita. Locke sosteneva che l’esperienza sensoriale ambientale e sociale avrebbero plasmato gradualmente la personalità e le capacità cognitive di un individuo.
Affascinante teoria che, però, non ha retto alla prova del tempo.
Diverse discipline scientifiche, infatti, hanno indagato le basi genetiche di alcune caratteristiche individuali, confermando l’idea di una natura umana già in parte definita alla nascita, se non ancora prima, durante la vita nel ventre materno. È stato Steven Pinker con il suo famoso libro Tabula rasa (2006) a spiegare come sia proprio la particolare “qualità” condivisa della specie umana, fondata sull’attività fisiologica del cervello, a preservare la nostra capacità di scelta e libertà.
Insomma, veniamo al mondo con una dotazione di capacità e potenzialità come novelle cellule staminali che possono essere trasformate in diversi modi. Momento nevralgico in cui si gettano i semi degli individui che saremo e della nostra salute psicologica e sociale sono i famosi “primi mille giorni” quelli che vanno dal concepimento al compimento dei due anni di età. E poi via, in una crescita sia fisica sia cerebrale sino ai primi sei anni. Anni lenti e veloci, come concorderà qualsiasi genitore, in cui ogni giorno si apprezza una nuova facoltà, una capacità, una scoperta a cui rispondere e reagire nel modo giusto. Non basta mettere al mondo i bambini, infatti, per saper fare i genitori; un po’ ci s’improvvisa, un po’ ci si affida all’istinto, un po’ alla saggezza di quelli che ci sono passati prima di noi (i nonni per esempio), oppure si impara dalla nostra stessa esperienza quando il bambino che sta venendo al mondo è il secondo o il terzo (non citiamo il quarto che ormai è una rarità). Eppure l’educazione nella fascia d’età dagli zero ai sei anni è la Cenerentola dei manuali, ma in realtà è di particolare importanza. Ne abbiamo parlato con il professor Giorgio Tamburlini: pediatra, esperto di salute dell’infanzia e presidente del Centro per la Salute del Bambino ONLUS, socio fondatore del programma Nati per Leggere. Ecco che cosa ci ha detto: «Sono convinto sia necessario investire sulla genitorialità, su alcuni sostegni sin dai primissimi anni di vita e addirittura dalla vita prenatale. Eppure l’apprendimento da zero a sei anni è trascurato anche nei manuali. Quando parliamo di educazione, ci riferiamo a un complesso di facoltà che non si limitano alla cognizione, ma investono la sfera emotiva, relazionale, sociale che si intersecano tra loro. Nei primi due-tre anni di vita l’ambiente familiare è quello più importante, ma si è visto che anche l’esposizione al nido può fare la differenza».
Dovremmo investire molto di più sul supporto alle competenze genitoriali perché oggi l’esperienza è inferiore al passato, quando le famiglie erano grandi e più coese. I genitori di oggi sono più istruiti ma meno competenti – anche se la loro istruzione rimane un determinante sociale importante che influisce sul futuro educativo dei figli.
«Dobbiamo aiutare i genitori a creare spazi di “attenzione condivisa” sin dai primissimi anni, che significa lavorare insieme per creare ciò che viene chiamato early learning environment. Pensiamo ai bambini come fossero germogli, piantine: non basta dare loro acqua, ma bisogna cercare la giusta esposizione alla luce, concimare quando serve, potare da grandi, scegliere il terriccio adatto…»

Quando parliamo di educazione, ci riferiamo a un complesso di facoltà che non si limitano alla cognizione, ma investono la sfera emotiva, relazionale, sociale che si intersecano tra loro.

E quindi accudimento, protezione, ma anche coccole e ascolto, per seguire quello che a loro interessa prima ancora di indirizzarli o stimolarli… «Stimolazione non è un termine che mi piace, perché prevede un processo a senso unico, dall’alto al basso, mentre ritengo che il genitore debba essere aperto a capire e rispondere alle curiosità del bambino. Diciamo che la stimolazione positiva è quella che prevede una relazione: leggere insieme un libro, cucinare, prendersi cura di un fiore, farsi il solletico o fare un massaggio dopo il bagnetto. L’intelligenza si nutre anche di corpo oltre che di mente. Non è attenzione condivisa quella di fronte a uno schermo, troppo spesso usato come baby sitter. Le linee guida internazionali pediatriche sconsigliano l’esposizione agli schermi prima dei due anni. Ma facciamo anche quattro. L’attrazione verso i dispositivi elettronici si crea quando il bambino vede che il genitore usa di continuo lo smartphone, per questo consigliamo di posare il cellulare quando si torna a casa, metterlo in un cassetto e prediligere la relazione con i membri della famiglia.» D’altra parte, il telefono cellulare nasce per favorire i contatti in mobilità.
Si parla molto di educazione alle emozioni, che cosa ne pensa Tamburlini? «Sono favorevole se è un’educazione sistemica, che include anche i genitori. Le emozioni vanno riconosciute, nominate, espresse. Averle è normale, così come è normale che nella vita ci siano situazioni di avversità come la perdita del lavoro di un papà, la morte di una nonna. Già alla fine del primo anno di vita i bambini sviluppano una spiccata competenza sociale che permette loro di capire le emozioni dalle espressioni del volto. Insomma, quella delle emozioni insegnate a scuola può essere una integrazione, non l’unica fonte di informazione. Ma le emozioni potrebbero essere anche inserite nelle materie scolastiche: in storia, arte, musica, cercando di immaginare come si sentisse l’autore di una poesia o di un brano musicale, contestualizzando il periodo storico. Pensi che magnifica opportunità sarebbe» prosegue Tamburlini.
Già alla fine del primo anno di vita i bambini sviluppano una spiccata competenza sociale che permette loro di capire le emozioni dalle espressioni del volto.
Una generazione di figli unici pone dei rischi: un mancato apprendimento familiare sia da parte dei genitori sia da parte dei figli, che rischiano di essere cresciuti come “piccoli principi” (loro malgrado), con il rischio di allevare dei futuri egocentrici. Sono le regole e i limiti a fare la differenza, e qui può intervenire efficacemente la scuola dell’infanzia, che svolge un ruolo fondamentale di socializzazione, confronto con adulti “altri” e gruppo dei pari. Ci sono anche differenze nell’educazione di maschi e femmine. «Sì» conferma Tamburlini. «Per esempio sono scomparse quelle attività maschili in cui i bambini erano chiamati a collaborare, come raccogliere la legna, aiutare in giardino, andare a pesca col nonno. Oggi i maschi sono coinvolti solo a livello sportivo dove c’è più competizione che cooperazione».
Compito non facile quello dei genitori moderni, isolati, talora lontani dalle famiglie di origine, spesso senza supporti sociali, con difficoltà lavorative e un senso di precarietà. Mettere al mondo un figlio è diventato quasi un atto eroico se pensiamo che l’ISTAT ha appena diffuso il dato delle nascite del 2023: 379.000, con un tasso di 6,4 bambini per mille (1,20 figli per donna), in calo rispetto al 2022, quando erano 6,7 per mille. Un dato che sfiora quello del 1995, quando si registrò il minimo storico con 1,19 figli per donna.
La crescita e l’apprendimento non sono processi lineari ma hanno momenti di esplosione, di arresto, di stallo, di rallentamento e di accelerazione: è il fascino dello sviluppo cerebrale, c’è chi parte piano e poi accelera, chi ha il turbo e poi trova la sua velocità di crociera.
La possibilità di frequentare un nido offre molti vantaggi (e per questo dovrebbero essere più numerosi, economici, accessibili): creare asili, migliorare le mense scolastiche e potenziare il supporto educativo e sociale emergono come tre interventi prioritari per contrastare la crescente povertà educativa. Secondo l’ISTAT, dal 2011, il tasso di povertà assoluta tra i minori è raddoppiato, raggiungendo il 13,5%. Solo il 13% dei bambini tra gli zero e due anni ha accesso a servizi di nido o integrativi pubblici, evidenziando una carenza critica nella disponibilità di strutture di cura. Inoltre, il 48% degli studenti non può ancora usufruire delle mense scolastiche, limitando l’accesso a pasti nutritivi e contribuendo a esacerbare le disparità socioeducative. Per alcuni bambini, quello in mensa è l’unico pasto equilibrato della giornata, le diete dei più piccoli infatti sono squilibrate, non tanto in quantità ma in qualità. Secondo l’ISTAT, la copertura nelle strutture educative pubbliche sotto i tre anni e private nell’anno educativo 2021/2022 è pari a 28 posti disponibili per 100 bambini residenti, ancora ben al di sotto dell’obiettivo europeo del 33%. C’è ancora molto da fare.

Giorgio Tamburlini

Giorgio Tamburlini, pediatra ed esperto di salute dell’infanzia, ha svolto e svolge attività di consulenza per diverse organizzazioni internazionali, in primo luogo per l’OMS e l’UNICEF, e collabora con numerosi centri accademici e di ricerca in Italia e all’estero su programmi a supporto dell’Early Child Development. È stato tra i fondatori del programma NpL (Nati per leggere) ed è presidente del Centro per la Salute del Bambino-onlus che coordina NpL in collaborazione con l’Associazione Italiana Biblioteche e l’Associazione Culturale Pediatri.
di Johann Rossi Mason, giornalista medico scientifico