Quando nel 1970 il sociologo e futurologo Alvin Toffler pubblicò il suo celebre libro Future Shock, la sua maggiore preoccupazione erano gli anziani. Come avrebbero potuto affrontare le conseguenze di un’epoca di accelerazione esponenziale, loro che erano nati quando c’erano ancora le carrozze e i cavalli e avevano assistito allo sbarco sulla Luna? Lo choc del futuro che Toffler preconizzava sarebbe stato innanzitutto uno choc generazionale, un divario destinato ad acuirsi tra giovani e anziani, tra persone naturalmente proiettate al futuro e altre con lo sguardo naturalmente rivolto al passato. Dopotutto, che i giovani guardino al futuro con ottimismo è sempre stato un assunto alla base delle nostre società. È questa visione ottimistica che li ha resi protagonisti di quasi tutti i tornanti di svolta dell’età moderna e contemporanea. Eppure, da alcuni anni le cose sono cambiate. Abbiamo imparato a conoscere il neologismo “eco-ansia”, ma non abbiamo ancora fatto i conti con il fatto che si tratti solo della punta dell’iceberg di un malessere molto più ampio e multidimensionale: la “futuransia”.
Disponiamo ormai di una gran mole di dati a conferma del fatto che la futuransia, ossia l’ansia del futuro delle nuove generazioni, sia un fenomeno ampiamente diffuso in tutto il mondo occidentale. Un sondaggio effettuato nel Regno Unito nel 2022 dall’ente di beneficenza The Prince’s Trust ha rilevato che il 49% dei giovani tra i 16 e i 25 anni ogni giorno prova ansia per il proprio futuro, e il 59% descrive come “spaventosa” la prospettiva della propria generazione. Una prospettiva condivisa a livello internazionale, secondo uno studio del 2021 pubblicato su “The Lancet” e condotto su diecimila giovani della stessa fascia d’età in dieci diversi paesi del mondo. Più della metà dei rispondenti sostiene, infatti, che “l’umanità sia condannata”; il termine “spaventoso” per definire la loro sensazione riguardo al futuro è condiviso dal 75% dei rispondenti. In Italia i dati dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo provenienti dal segmento d’età 25-34 anni evidenziano come più della metà degli intervistati affermi di non volere figli nei tre anni successivi a causa dei timori legati alle aspettative economiche e agli effetti del cambiamento climatico.
Abbiamo imparato a conoscere il neologismo “eco-ansia”, ma non abbiamo ancora fatto i conti con il fatto che si tratti solo della punta dell’iceberg di un malessere molto più ampio e multidimensionale: la “futuransia”.
Quest’ultimo dato è al centro di molte discussioni. L’idea di molti giovani secondo cui non sarebbe giusto avere figli, a causa delle condizioni drammatiche in cui crescerebbero visti i danni ambientali prodotti dalla civiltà umana, è sintomatica di una visione del futuro radicalmente nichilista. Questa prospettiva a sua volta genera, in risposta, disprezzo e sfiducia da parte delle generazioni più adulte, considerate responsabili dei disastri ereditati dai giovani ma in genere poco disposte ad accettare tali recriminazioni. La crescita del negazionismo climatico tra le generazioni più adulte è il sintomo del rifiuto di riconoscere le proprie colpe, e va di pari passo con la convinzione che i giovani vogliano solo scaricare responsabilità su altri, anziché assumersele in prima persona. La conseguenza è l’esasperazione del conflitto generazionale non solo nei paesi occidentali, ma anche in stati come la Cina o la Corea del Sud, dove l’invecchiamento della popolazione inizia a diventare una questione seria.
Non sfugge il collegamento con le conseguenze della pandemia da Covid, in seguito alla quale è emersa una vera e propria epidemia di disturbi psicosociali soprattutto tra gli adolescenti, con un marcato declino della salute mentale. Il termine “policrisi”, coniato anni prima della pandemia ma diventato molto diffuso in tempi recenti, è probabilmente quello che riesce meglio a definire le complesse cause di questo problema. Il Covid è stato il primo, drammatico contatto dei più giovani con le conseguenze negative dell’Antropocene, dal momento che il salto di specie del virus si è reso possibile per la crescente espansione degli habitat umani in ecosistemi dove albergano serbatoi di patogeni ancora sconosciuti (così accadde anche nel secolo scorso per l’altra grande pandemia, quella dell’HIV), e per la crescita esponenziale dei flussi globali di persone. Da allora, il susseguirsi di situazioni di crisi ha messo in seria discussione l’assunto che il futuro sarà migliore del presente. Tuttavia, la soluzione non può passare solo da interventi a favore del benessere psicologico.
La futuransia è strettamente connessa alle disparità sociali della nostra epoca. La nostra è la prima epoca della storia umana in cui le generazioni in età da lavoro (X-Gen e Millennials) sono più povere di quelle in pensione (Baby Boomer); la concentrazione di ricchezza e potere d’acquisto negli over-65 nei paesi occidentali è un fenomeno senza precedenti, e aumenta la sensazione dei giovani di non possedere mezzi sostanziali per forgiare in autonomia il proprio futuro. A ciò si aggiunge la consapevolezza che le scelte che riguardano il proprio futuro sono sempre più sottratte al cittadino medio. I grandi paesi inquinatori non si trovano in Occidente; le grandi scelte economiche sono sempre più in mano a un manipolo di uomini ricchissimi, i cui redditi non hanno fatto che aumentare dal 2020 a oggi, cosicché poche decine di supermiliardari possiedono più reddito della metà più povera del mondo; il calo della partecipazione attiva alle elezioni mostra la disaffezione verso sistemi di governo che, per loro natura, tendono a favorire le generazioni più anziane, che rappresentano il principale bacino di voto, acuendo il conflitto generazionale.
La futuransia è strettamente connessa alle disparità sociali della nostra epoca.
Per questo ogni intervento teso a ridurre la futuransia nei giovani passa per l’aumento della loro “capacità di futuro”. Questa capacità consiste in due diversi momenti: il primo è quello dell’immaginazione di futuri alternativi rispetto alla mera proiezione del presente, nei quali invece le aspirazioni e le speranze dei più giovani trovano compimento, anche scardinando le logiche paralizzanti del “presente continuo” nel quale siamo immersi; il secondo momento è quello dell’azione, ossia della capacità di agire come singoli e come collettivi per realizzare quanto immaginato. Non importa se quello che si è immaginato non si realizzerà: quello che importa è la convinzione che, agendo, sia possibile riuscirci, ossia che il futuro dipenda dall’agire di ciascuno e non sia piuttosto “colonizzato” da pochi soggetti che lo sottraggono alla collettività. Molto del lavoro di chi oggi si occupa di studi di futuro, anticipazione e alfabetizzazione al futuro ha quest’obiettivo. Il rafforzamento della capacità di futuro può avvenire attraverso laboratori partecipativi che si tengono nelle aule scolastiche, nelle associazioni, nei quartieri periferici, nelle carceri, nei gruppi di pazienti, in ogni luogo dove ci sono comunità oppresse dalla futuransia. Questi laboratori hanno per obiettivo l’acquisizione di competenze per capire quali sono le dinamiche che determinano il futuro e come provare ad agire per trasformarle: di solito, al termine dell’attività, il gruppo acquisisce fiducia nella propria “capacità di futuro”, ciò che viene chiamato empowerment.
Naturalmente, queste iniziative possono solo limitarsi a seminare qui e là, nella speranza che qualcosa germogli e porti frutto. Ma il principio proiettato su scala più ampia – quella a livello di collettività locali, nazionali, globali – è lo stesso: aiutare i giovani a prendere coscienza delle dinamiche del presente e delle loro possibili evoluzioni, metterli in condizione di immaginare alternative e sostenerli nella possibilità di cambiare il futuro.
Per usare le parole dell’antropologo di origine indiana Arjun Appadurai, che ha lavorato sulla capacità di futuro di molte comunità in giro per il mondo, «è soltanto tramite una qualche sorta di politica della speranza che una qualunque società o gruppo può raffigurarsi il tragitto verso un auspicabile cambiamento dello stato delle cose».
Roberto Paura
Roberto Paura è presidente dell’Italian Institute for the Future, co-fondatore dell’Associazione dei Futuristi Italiani e direttore di “Futuri”, rivista italiana di futures studies. Come giornalista scientifico e culturale collabora con diverse testate ed è vicedirettore di “Quaderni d’Altri Tempi” e membro del comitato di direzione di Futura Network. È autore di diversi saggi, tra cui Occupare il futuro. Prevedere, anticipare e trasformare il mondo di domani (Codice edizioni 2022).